Prima di iniziare, qualche informazione di servizio. Particolari si allarga: come qualcuno di voi avrà notato, nei giorni scorsi è arrivato il primo numero di Sbandierare, scritto da Andrea Macchioni. Per citare lo stesso autore, saranno dei numeri con “randomiche notizie di vessilologia”, tema a lui molto caro. Adesso si aggiunge anche Follow Up, a mia firma. L’obiettivo di questa sezione di Particolari è quello di non perdere di vista alcune delle storie di cui vi abbiamo parlato nei mesi scorsi, e di darvi qualche aggiornamento sulla loro evoluzione. Perché soltanto per il fatto che non se ne parli, non vuol dire che le cose non accadano e non mutino.
Adesso partiamo sul serio, e in questo primo numero di Follow-Up torniamo su El Salvador e sul nostro dittatore preferito: Nayib Bukele.
Buona lettura!
Cosa voleva in cambio? Sicuramente credibilità internazionale, un qualcosa per cui avere vicino il Presidente degli Stati Uniti aiuta. Crearsi un alleato così importante è sicuramente un vanto. Mostrare al mondo il proprio Paese dopo aver debellato il crimine potrebbe essere un altro motivo. Così come far vedere a tutti il proprio gioiello: il sistema carcerario.
Eppure qualcosa sembra mancare. Con il suo abito nero d’ordinanza Nayib Bukele vuole anche qualcos’altro, e riesce a ottenerlo abbastanza facilmente.

Certo, El Salvador viene pagato per aprire le porte delle proprie inumane carceri a criminali o presunti tali che arrivano dagli Stati Uniti. Presunti come Kilmar Abrego Garcia, il trentenne ingiustamente deportato con l’accusa di essere un membro dell’organizzazione criminale Mara Salvatrucha (MS-13) in El Salvador per poi essere riaccompagnato negli Stati Uniti per affrontare nuove accuse nei suoi confronti.
Ma a Bukele evidentemente non importano solo i soldi. Il dittatore più cool del mondo ha fatto un accordo che prevede anche altro: la deportazione nelle carceri salvadoregne di alcuni dei leader della Mara Salvatrucha.
Fin qui non ci sarebbe nulla di strano, o di nascosto. Il motivo di questa richiesta l’ha spiegato l’ambasciatore salvadoregno a Washington Milena Mayorga: “è una questione di onore”. Una recente inchiesta del New York Times mostra che invece l’onore è solo un elemento di corredo.
Ma bisogna fare un piccolo passo indietro.
È agosto del 2020, e Osiris Luna Meza si presenta all’ambasciata statunitense di San Salvador. Non è un cittadino qualunque: è uno dei più stretti collaboratori del Presidente Bukele, quello a cui è affidata la gestione del sistema carcerario. Ancora non è in corso la guerra spietata ai criminali, che partirà solo due anni più tardi e che porterà la popolazione carceraria a crescere a dismisura: dai circa 30 mila detenuti dell’inizio del 2022 ai circa 110 mila di quest’anno.
Luna Meza ha delle rivelazioni da fare, e una richiesta.
Tra il governo di Bukele, insediatosi l’anno prima, e la Mara Salvatrucha c’è un accordo. Per testimoniare contro il Capo di Stato del suo Paese vuole però asilo politico negli Stati Uniti.
Luna Meza ha però la fama di essere corrotto, e quindi probabilmente poco affidabile. La cosa muore lì. Nel frattempo però negli Stati Uniti si muove qualcosa, e nascono dubbi sull’utilizzo da parte del governo salvadoregno di parte dei fondi di aiuto messi a disposizione proprio da parte del governo statunitense. Si muove quindi il Dipartimento del Tesoro che inizia ad indagare.
E nel dicembre del 2021 le indagini del Dipartimento portano ad alcune conclusioni. Ci sono stati dei colloqui che hanno coinvolto stretti collaboratori di Bukele, tra cui proprio Luna Meza e un altro alto dirigente, Carlos Marroquín Chica, anche dopo l’avvento al governo del dittatore più cool del mondo. Ma non solo colloqui, ma proprio delle negoziazioni: da un lato gli uomini di Bukele chiedono supporto politico per il partito del loro leader, ma anche un minor movimento da parte dei gruppi criminali; dall’altro la Mara Salvatrucha ottiene denaro, mentre alcuni dei suoi membri all’interno delle carceri ricevono cellulari e visite da parte di prostitute.
E poi?
Nel 2023 la task force Vulcan degli Stati Uniti, nata proprio per affrontare la Mara Salvatrucha, riesce ad arrestare Vladimir Arévalo Chávez, noto come “Vampiro”, accusato di essere il mandante di omicidi in tre Paesi diversi. Insieme a lui altri 12 membri della MS-13, accusati di terrorismo, strage e corruzione. E qui arrivano i problemi per il governo salvadoregno: gli interrogatori e le prove raccolte confermano l’esistenza di questo accordo. E qui arriva il colpo di Nayib Bukele che nell’accordo con l’amministrazione Trump inserisce proprio il ritorno di queste persone.
Il risultato è che almeno uno dei 13 imputati, César López Larios, è stato messo su un aereo direzione El Salvador, dopo che tutte le accuse nei suoi confronti sono state fatte cadere. Il motivo ufficiale sono le “importanti considerazioni in materia di politica estera” oltre a “preoccupazioni per la sicurezza nazionale”.
Al momento non è noto quanti di questi leader della MS-13 faranno ritorno in El Salvador, gli stessi capaci di far luce sul patto stipulato con l’amministrazione di Bukele. Lo stesso patto venuto meno poco tempo dopo.
Il sistema delle quote
È infatti evidente che a partire dal 2022 Nayib Bukele cambia strategia. Ha vinto nuovamente le elezioni del 2021, con una maggioranza schiacciante, e secondo queste rivelazioni anche grazie all’appoggio della MS-13. L’’anno successivo decide di far partire la sua guerra al crimine.
Arresti indiscriminati, come raccontano da tempo varie organizzazioni per i diritti umani, e la popolazione carceraria più grande al mondo in rapporto alla popolazione, circa il 2%. Ma adesso non sono solo le ong a descrivere il metodo Bukele, che poco ha a che fare con l’idea di giustizia. Ora ci sono anche membri della Polizia salvadoregna che raccontano la “guerra alle gang”. Pochi giorni fa Human Rights Watch ha infatti pubblicato un report frutto delle testimonianze di 11 ufficiali di polizia, con diversi anni di esperienza. Fra loro 9 ancora in servizio.
“Ci hanno imposto delle quote di arresti. Ogni pattuglia doveva arrestare tre o quattro persone per turno. Altrimenti non potevamo tornare alla base” racconta un ufficiale. Non è possibile quindi tornare alla base senza aver fatto qualche arresto. E gli ufficiali temono di subire la stessa sorte delle persone che arrestano: finire nell’infernale sistema carcerario salvadoregno.
E quindi in El Salvador non è necessario fare indagini, ma solo arresti. Chiunque abbia tatuaggi è un potenziale membro di una gang, dunque va arrestato. E basta una telefonata di segnalazione per portare all’arresto di vicini con accuse di vario tipo.
Il report parla anche di un’altra pratica, ovvero riportare in carcere le persone appena uscite. E questo significa non permettere loro di fare neanche un passo fuori. “Gli agenti li aspettano ai cancelli. I giudici ordinano il loro rilascio. Ti portano fuori dal carcere, oltre il cancello, e mentre te ne vai, ti arrestano di nuovo. Le stesse guardie carcerarie chiamano la polizia e dicono che una certa persona sta per essere rilasciata, e la arrestano di nuovo per la stessa accusa: associazione a delinquere”.
Tutto questo per accrescere i numeri, per portare risultati. Poco importa se ci sono innocenti: in El Salvador non esistono innocenti.